Il 12 giugno si celebra la Giornata Mondiale contro il lavoro minorile. È stata indetta per la prima volta nel 2002 dall’International Labour Organization (ILO). Più di vent’anni dopo però, il problema non è ancora stato risolto. Dal 2002 ad oggi sono stati fatti dei progressi per ridurre lo sfruttamento minorile, ma gli sforzi non sono ancora sufficienti a debellare questa schiavitù e con il Covid, la situazione si è aggravata maggiormente.
La Giornata ha l’obiettivo di richiamare l’attenzione di tutti, sulla necessità e urgenza di adottare misure per porre fine alle forme inaccettabili di sfruttamento di bambini e adolescenti nel mondo del lavoro. l’ILO stima che oltre 170 milioni di minori siano coinvolti in lavoro minorile, definito come “lavoro per il quale un bambino è troppo piccolo, o che è considerato inaccettabile ed è proibito ai bambini a causa della sua natura dannosa“.
Nei Paesi meno sviluppati oltre un bambino su cinque tra i 5 e i 17 anni, svolge dei lavori considerati dannosi per la sua salute e il suo sviluppo.
Spesso ci troviamo difronte alle immagini di bambini piccoli, con le loro manine impiegate in lavori da adulti, sotto il peso dai materiali che trasportano; ricurvi nelle cave, nelle piantagioni e non ci rendiamo conto, nella comodità delle nostre realtà di società più ricche e sviluppate che forse, in quello sfruttamento, in quella barbarie di libertà, infanzia e istruzione rubata, c’è una parte della nostra responsabilità.
Quando acquistiamo abbigliamento a rapida spedizione e basso costo, proveniente dai paesi più poveri, spesso quel capo è frutto di un lavoro che rasenta la schiavitù. Milioni di bambini, infatti, soprattutto nel settore tessile sono impiegati, con stipendi nettamente inferiore ai limiti di legge: dalla raccolta del cotone, fino alla cucitura dei capi, con un danno non solo psicologico, ma anche e soprattutto fisico.
Un acquisto consapevole da parte nostra, quindi, può essere un piccolo passo verso la libertà di questi piccoli lavoratori: se un capo proviene dall’India, dal Bangladesh o da paesi in via di sviluppo bisogna stare attenti, perché con grande probabilità, il nostro allettante risparmio, non è altro che il prezzo di uno sfruttamento senza scrupoli della manodopera.
Il lavoro minorile però, è un fenomeno di portata globale e tutti i paesi ne sono colpiti. Anche l’Italia non è esente. Le rilevazioni di EUROSTAT evidenziano che nel nostro Paese un minore su quattro è a rischio di povertà ed esclusione sociale. Il rapporto dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza, indica che la dispersione scolastica degli alunni delle scuole secondarie di primo grado (età 11–14 anni) riguarda principalmente i bambini e gli adolescenti e le regioni del Sud e le isole. In queste regioni, il rapporto segnala un’apparente correlazione tra abbandono scolastico e lavoro minorile che riguarda in particolare i ragazzi di età compresa tra i 14 e i 15 anni.
“La protezione sociale e l’istruzione di qualità sono diritti umani universali e inalienabili. La loro effettività garantisce alle famiglie di rimanere immuni dal lavoro minorile – afferma Gianni Rosas, Direttore dell’Ufficio OIL per l’Italia e San Marino –. L’esclusione dall’istruzione e dalla formazione è spesso sistemica. Essa è anche alla radice del lavoro minorile, dei lavori sotto remunerati e di scarsa qualità, e della segmentazione del mercato del lavoro. È piuttosto probabile che un bambino che non ha frequentato la scuola, perché costretto a lavorare sarà un lavoratore povero durante tutta la vita lavorativa. Tutto ciò crea una catena di povertà ed esclusione sociale. Per spezzare questa catena è necessaria un’azione sinergica attraverso l’attuazione di interventi sull’istruzione e formazione dei bambini e degli adolescenti. Solo così si potrà raggiungere il traguardo 8.7 dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile che mira a porre fine al lavoro minorile in tutte le sue forme entro il 2025”.