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Giornata Internazionale di Solidarietà per il Popolo Palestinese

“Due popoli, due stati”: ma qual è il prezzo umano dell’unica soluzione accettabile?

Il 29 novembre è la Giornata Internazionale di Solidarietà per il Popolo Palestinese che quest’anno più che mai non può passare inosservata. Il nuovo sanguinario capitolo del conflitto israelo-palestinese è purtroppo in cima alle cronache mondiali dal 7 ottobre, data degli attacchi terroristici e dei rapimenti compiuti da Hamas in Israele, che hanno portato a un attacco massivo e devastante su Gaza da parte dell’esercito di Netanyahu. Per spiegare i motivi di questo conflitto, le cui origini sono lontane e le ragioni molteplici e complesse, non bastano poche righe; possiamo però, provare a comprendere perché, anni fa, si è resa necessaria l’istituzione di questa giornata.

Il 29 novembre del 1947, a pochi anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 181 (II), nota anche come Risoluzione della Partizione. Con quel documento l’ONU stabiliva la ripartizione della Palestina in Stato Arabo e Stato Ebraico, con Gerusalemme separata e amministrata da organismi internazionali. Ad oggi, però, l’unico stato che si è creato è quello di Israele, che però, oltre ad aver strutturato sé stesso, ha da allora esercitato un controllo sempre più radicato e militarizzato dei territori abitati dal popolo palestinese.

Lo Stato Arabo o meglio lo Stato di Palestina, invece, è uno stato de facto o a riconoscimento limitato. Questo significa che nonostante abbia proclamato e rivendichi la propria indipendenza dal 1988, la sua sovranità è riconosciuta ufficialmente solo da una parte della comunità internazionale. Attualmente lo stato palestinese sarebbe una Repubblica Semipresidenziale guidata dal Abu Mazen, in qualità di capo di stato e presidente dell’OLP – Organizzazione per la Liberazione Palestinese e dell’ANP- Autorità Nazionale Palestinese, e dal Primo Ministro Mohammad Shtayyeh, la cui autorità insisterebbe sui territori palestinesi in Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, con centro amministrativo a Ramallah e Gerusalemme Est come controversa capitale.

In realtà però, a seguito della Guerra dei Sei Giorni avvenuta nel 1967, Israele ha occupato e vessato da allora la popolazione palestinese in tutti i suoi insediamenti, limitandone progressivamente la libertà fino a trasformare la Striscia di Gaza in una prigione a cielo aperto, e i territori in Cisgiordania delle colonie in cui perpetrare abusi e violenze continue. Il controllo sempre più schiacciante di Israele, il malcontento, la mancanza di riconoscimento e di sufficiente attenzione internazionale hanno fomentato, negli anni, la nascita di fondamentalismi e organizzazioni armate come Hamas, che alle elezioni legislative del 2006 ha conquistato il 44% dei voti, diventando una delle forze politiche più radicate e radicali, ma anche violente.

Sono innumerevoli gli atti terroristici compiuti da Hamas ai danni di Israele e non solo, in nome della guerra santa e della liberazione della Palestina. Allo stesso tempo però, con l’istituzione di scuole, ospedali e una fervente politica sociale, l’organizzazione ha conquistato i favori di molti, soprattutto nella Striscia di Gaza, dove a seguito della Guerra di Gaza del 2007, ha preso in mano il controllo facendo fuori Al-Fatah, la controparte guidata da Abu-Mazen, che ancora governa, debolmente, in Cisgiordania. Nonostante questo, l’esercizio di potere di Hamas è irregolare sia a livello territoriale che di fiducia dalla popolazione, e questo non fa che aggravare la condizione di estrema instabilità politica e sociale, oltre ai rapporti con il resto del mondo.

Israele ne fa una ragione per non mollare la presa e restare di fatto sordo alle richieste internazionali di trattative di pace, mentre la comunità internazionale è combattuta tra la reale volontà di garantire al popolo palestinese il diritto ad autodeterminarsi, come previsto da risoluzioni e trattati, e l’imbarazzante difficoltà di dover trattare con un’organizzazione terroristica.

Una doverosa, seppure difficile e fin troppo semplificata premessa, per arrivare ai giorni nostri: a questo 29 novembre 2023, in cui la Palestina, e nello specifico la Striscia di Gaza, sono al momento in una tregua umanitaria dopo un mese e mezzo di bombardamenti devastanti che hanno ucciso, stando agli ultimi bilanci, circa 15000 persone di cui 6000 bambini e 4000 donne.

Bombardamento messo in atto da Israele in risposta ai sanguinosi attacchi compiuti dai miliziani di Hamas che nella prima mattinata di sabato 7 ottobre hanno portato alla morte in modo altrettanto atroce di 1400 israeliani, al ferimento di oltre 3000 persone e al rapimento di 242 ostaggi, di cui una parte, a seguito di lunghe trattative, sono stati rilasciati “in cambio” proprio di questa tregua.

Un conflitto che non può essere di certo banalizzato con schieramenti da stadio, che ignorano il complicatissimo scenario storico, politico ed economico che c’è dietro, ma che non può non tenere conto della lampante disparità di risorse e capacità militare esistente tra le parti. All’ingiustificabile massacro dei fondamentalisti islamici lo Stato di Israele ha risposto con un attacco di proporzioni inaudite, in cui sono stati ignorati buona parte dei diritti umani cardine dei trattati internazionali e delle leggi di guerra. L’inattaccabilità degli ospedali, che sono stati invece bersaglio costante, dei giornalisti (sono 60 quelli palestinesi morti sul campo, nell’esercizio della propria attività), la mancata tutela dei civili e l’accanimento contro di essi, compiuto da Israele bombardando i campi profughi e bloccando gli approvvigionamenti di cibo, acqua potabile, carburante e farmaci, sono solo alcuni dei gesti di cui, un domani, lo stato di Israele dovrà rispondere alla comunità internazionale.

Tutto questo è stato giustificato dal presidente israeliano come una strategia cruenta, ma necessaria dovuta alla presenza dei terroristi, unico obiettivo dichiarato dell’esercito regolare israeliano, nei sotterranei di quasi tutti gli edifici di Gaza, e che quindi ha reso necessario radere praticamente al suolo chilometri e chilometri di centri abitati. Il dubbio però che lo stato ebraico abbia colto anche la palla al balzo al grido di “antisemiti!” per portare a termine l’occupazione che opprime da decenni il popolo palestinese, è legittimo, dimostrando purtroppo ancora una volta che l’Olocausto, più che un monito contro ogni sopraffazione etnica e religiosa, è e sarà ancora per molto, una gigantesca macchina della rabbia.

I fatti, ad ogni modo, parlano di un territorio devastato da guerre reali e di principio, in cui la ragione, come sempre, sta nel mezzo di due popolazioni che – ognuna a modo suo – vivono nel terrore.  Da un lato gli ebrei, martoriati dalla storia e con il ricordo della Shoah ancora molto vivo, che in molte zone vivono in case dotate di rifugi blindati e che per primi, spesso, auspicano che si giunga a una pace tra i due popoli. Dall’altro il popolo palestinese, quasi otto milioni di persone, stremato dalle angherie israeliane, frammentato e ridotto a profugo in casa propria. In occasione della Giornata Internazionale per la Solidarietà al Popolo Palestinese, la speranza più banale è che si possa giungere in prima battuta ad un cessate il fuoco duraturo e supportato da entrambe le parti, in cui Hamas rilasci gli ostaggi ancora detenuti e in cui Israele accetti una volta per tutte il diritto palestinese ad uno stato libero, abbandonando un territorio non suo, e lasciando che la diplomazia internazionale faccia il suo lavoro in sicurezza.

 

Articolista di barlettaweb24, il primo quotidiano on line del gruppo, giovane e innovativo, si pone l’obiettivo di coinvolgere i lettori e renderli attivi e partecipi sul proprio territorio, attraverso notizie costantemente aggiornate e approfondite.

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