Una storia decisamente non ordinaria, quella di Maria Grazia Calandrone, finalista lo scorso anno al Premio Strega con “Dove non mi hai portata”, romanzo autobiografico che racconta la storia dei suoi genitori biologici, del suo abbandono a soli otto mesi a Villa Borghese a Roma e il loro suicidio nel fiume Tevere subito dopo.
Una storia di cui lei, per anni, ha conosciuto solo la punta dell’iceberg e che poi, dopo la partecipazione ad un programma televisivo, le è andata incontro, per essere indagata e scoperta in tutta la sua intricata, controversa complessità.
Di questa storia e dei tantissimi sentimenti e messaggi che le ruotano intorno, l’autrice ha parlato oggi in un toccante incontro con gli studenti dell’I.T.E.T. Cassandro – Fermi – Nervi, a Barletta, nell’ambito del progetto “Incontro con l’autore” promosso dal Dipartimento Umanistico in collaborazione con la Libreria Einaudi.
Maria Grazia Calandrone è nata a Milano ma la sua storia la porta a Roma, dove all’età di otto mesi viene appunto abbandonata dalla madre e dal padre che subito dopo si lasceranno morire nel Tevere. Lucia, sua madre, in fuga da un marito violento sposato per forza a Palata (CB), suo paese di origine, si era rifugiata col nuovo compagno a Milano in cerca di fortuna e anonimato. Sulla sua testa però pendeva una denuncia per adulterio, all’epoca reato e peccato mortale per lei, profondamente cattolica.
Incinta, si trova davanti a un bivio lacerante, visto l’epilogo: il carcere o le botte, già subite nei lunghi anni di matrimonio che è riuscita a sopportare. O la fuga per tutta la vita. Lucia e Giuseppe, che per lei ha lasciato moglie e cinque figli in balia di debiti e disagi, scelgono di compiere un gesto estremo, l’unico forse in grado di offrire una vita dignitosa a quella bambina, accudita e amata per otto mesi. La lasciano a Villa Borgese, imbucano una lettera indirizzata all’Unità, in cui affidano la bambina alla comunità, e si lasciano andare nel Tevere, ben vestiti, innamorati e profondamente disperati.
Maria Grazia Calandrone viene poi adottata, diventando la donna che oggi era seduta a parlare di amore, abbandono, adozioni e cultura patriarcale davanti ad un auditorium pieno di adolescenti che quella storia l’hanno letta con i propri occhi e oggi sono curiosi di saperne di più.
Tra quelle pagine e nelle loro domande, ci sono tutti i temi importanti del libro. C’è l’Italia degli anni ’50, in cui picchiare mogli, sorelle, nuore, era la prassi, e tutti sapevano e quasi nessuno faceva domande. L’Italia in cui i matrimoni si decidevano sulle rendite agricole, o mobiliari e l’amore… non ti da mangiare. C’è l’Italia dei migranti verso nord, nella Milano che promette il progresso, soli, dove a molti è andata bene ma a qualcuno proprio no. C’è il tema dell’abbandono, attualissimo, se pensiamo che in Italia ogni anno vengono abbandonati 3000 bambini, e chissà quanti verranno al mondo non desiderati, o concepiti con la forza, o controvoglia, in un unioni infelici, tenute insieme legacci sconosciuti al di fuori delle mura domestiche.
C’è il tema della fuga, stremata dalla violenza, del desiderio di provare a salvarsi, e il tema dell’abbandono, quando salvarsi sembra impossibile. E ancora la maternità e l’amore moltiplicato che si sublima nel sacrificare una vita, quella di una madre, per provare a salvarne un’altra, quella di una figlia.
In un’ora e mezza con Maria Grazia Calandrone e una manciata di classi di adolescenti c’è tanto, forse troppo. Il cervello prende appunti che subito dopo vengono scalzati dallo spunto successivo, e ancora e ancora fino alla conclusione, che arriva in un baleno e lascia con la voglia di ascoltare ancora. Perché Calandrone parla con una precisione analitica che ipnotizza, frutto del metodo poetico con cui lei stessa ammette di scrivere. Un modo di osservare la realtà con lo scanner, per arrivare alla profondità più intima della realtà e delle cose.
Presente e invadente c’è poi il tema dell’omertà, ora come allora, di un paese che sa, ma finge di non vedere. Per consuetudine, per perbenismo, per disattenzione. Un paese che allora – forse – aveva le attenuanti delle leggi che sancivano l’appartenenza delle mogli ai mariti (o delle figlie ai padri), ma che oggi, potendosi riscattare, sceglie di non farlo non permettendo all’autrice di riportare a casa la sua storia.
Quella casa dove tutto è iniziato, dove una donna giovanissima ha sposato un uomo senza volerlo, ha preso botte per anni senza nessuno ad impedirlo e da cui è scappata senza che nessuno la fermasse per tenderle una mano. Quella casa dove Maria Grazia è stata concepita e dove è tornata per scoprire la verità. In quel paese, Palata, la sua storia – di nuovo – non l’hanno voluta ascoltare, ma lei, per fortunata, l’ha regalata al resto del mondo, sperando “che serva”.