Da tempo ormai il Natale ha perso la sua etichetta esclusiva di festa religiosa per trasformarsi in una ricorrenza trasversale e, nella maggior parte dei casi, in una fusione di rituali religiosi e no, con buona pace dei puristi e per la gioia, invece, di chi non bada troppo all’ortodossia e si perde in contaminazioni creative.
È normale anche da noi, quindi, che l’allestimento del presepe coincida con l’arrivo in casa dell’Elf on the Shelf, il folletto che di giorno sorride pacifico da una mensola e di notte si avventura in innocenti dispetti ai bambini della casa, o che al panettone si affianchino i biscotti di Pan di zenzero, il tutto condito da una quantità illegale di addobbi, maglioni a tema rigorosamente brutti e villaggi di Natale in ogni città, sempre più simili a quelli dei film americani.
Succede e – a conti fatti – la cosa non sembra disturbare nessuno a differenza di Halloween, ad esempio, che fa ancora storcere il naso a qualche irriducibile. E succede, forse, perché in qualsiasi salotto si guardi, in fondo lo “spirito natalizio” è sempre lo stesso: condivisione, dono, amore/odio per le interminabili riunioni familiari… eppure, dalla Sicilia a New York, non c’è persona che possa permettersi di viaggiare che non faccia l’impossibile per tornare a casa per Natale.
Accettiamo gli addobbi più kitsch, i maglioni vistosi e una sovraesposizione a Babbo Natale perché sotto sotto, comunque, ne riconosciamo il linguaggio. Seppure un po’ più in grande, riconosciamo i codici di questa grande giostra di Natale che somiglia sempre di più ai film e sempre meno alle foto con i nonni. Lo accettiamo, anche perché è un grandissimo strumento di distrazione di massa. I negozianti alzano la posta, i brand ci sommergono di stimoli, capsule collection, offerte a tempo, Babbo Natale ovunque per ricordare ai nostri bambini di chiedere ancora, ancora, ancora, giocattoli che probabilmente riceveranno anche se i genitori non potrebbero permetterseli, e una disattenzione sempre più esclusiva verso ciò che accade “fuori” dal microcosmo di strade e centri commerciali.
La sensazione forte è che sia tutto un grande, colorato, rumoroso Truman Show, in cui tutti ci adeguiamo in base alle possibilità e godiamo quel senso di pace dovuto al chiudere fuori dalla bolla tutto ciò che non è felice: compresi noi stessi.
Eppure: sono sempre di più le persone che si rivolgono alla psicoterapia per affrontare i propri demoni. I femminicidi, cruenti, sono all’ordine del giorno. Le famiglie sono sempre più in difficoltà, la guerra in Ucraina, a dispetto delle aspettative di qualche settimana fa, è ancora in pieno svolgimento, con bombardamenti continui e aggressivi, anche su bersagli civili.
Gesù bambino, anche quest’anno, nascerà tra le bombe, proprio lui, che dovrebbe essere portatore di pace e di luce, giungerà a Betlemme in un’ennesima notte illuminata dai missili, mentre a Gaza, poco lontano, la conta dei morti è giunta a 45.000 persone.
Il mondo intero vira pericolosamente tutto verso destra e no, non è una questione politica, è una questione di opportunità; perché in un contesto così disastrato voltare le spalle alle persone in fuga è quanto di più inopportuno si possa concepire, e anche di meno cristiano, se proprio vogliamo provare a chiudere questo cerchio di Natale.
Insomma, il Natale del 2024 somiglia sempre più a quelle piccole, bellissime, ricostruzioni animate dei villaggi di Natale che in molti avremo in salotto, ma noi, tutti, somigliamo sempre più ai bambini che li ammiriamo dalle vetrine, guardando un mondo che non c’è senza accorgerci del nostro che cade a pezzi.
Il nostro auguro è che tra un Whamageddon e un Secret Santa, tra una cartellata e un tombolino si torni davvero a ricordarsi dell’altro, a partire dalla vicina rimasta sola, da quella famiglia meno fortunata al secondo piano fino a quei bambini lontani che vorrebbero solo diventare grandi.