A novembre dello scorso anno, dopo il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin, abbiamo gridato alla rivoluzione, con una chiamata alle armi mai vista prima, una mareggiata crescente e inquieta di donne – tante, e uomini – mai abbastanza, furiosi, devastati, lacerati da quell’ennesimo femminicidio che vedeva vittime, insieme a Giulia, ognuna di noi con una straordinaria vita medio borghese.
Ci hanno promesso protocolli di sicurezza più efficaci e stringenti, ci hanno promesso illuminati corsi di educazione sentimentale nelle scuole. Ci siamo ripromesse di stringerci forte e non indietreggiare di un passo… eppure.
I dati dell’Osservatorio Femminicidi Lesbicidi Transcidi (FLT) in Italia di Non Una Di Meno (NUDM) registrano, al 22 novembre di quest’anno, 106 casi conclamati di morti indotte da violenza di genere e etero-cis-patriarcale e 44 tentati femminicidi riportati dai media.
CENTOSEI volte in cui abbiamo fallito. CENTOSEI volte che “Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto. / Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima”.
Tutte morti violente, improvvisate o premeditate, perché quegli uomini non potevano accettare un rifiuto, la fine di una relazione, perché volevano provare cosa si prova ad uccidere, perché non sanno cosa gli sia preso, perché ci siamo rifatte una vita, perché aspettavamo un figlio, perché li abbiamo traditi, perché gli è stato detto no.
Gli uomini continuano imperterriti a sfogare la propria rabbia sui corpi delle donne perché non sono ancora in grado gestirla in modo edificante, o quantomeno maturo. Quando diventiamo genitori gli esperti si affannano a ripetere che i bambini imparano a gestire la rabbia col passare degli anni, apprendendo dai genitori, dai familiari, dagli ambienti che frequentano, dagli esempi che hanno intorno, insomma, come elaborare la rabbia e la frustrazione. Ci insegnano che i bambini, fino a una certa età, non sono proprio in grado di comprenderla questa rabbia, per il livello di sviluppo fisico e biochimico raggiunto. Che è un percorso lento, graduale, che va accompagnato con amore e infinita pazienza.
E dunque siamo circondati da bambini mai cresciuti veramente? Di adulti con la corteccia prefrontale di un bambino di sette anni che però sono in grado di farci innamorare, di avere un lavoro, di procreare purtroppo, e di ammazzare all’occorrenza? O siamo di fronte all’ennesima generazione di maschi che non solo ride quando una zia fa la simpatica battuta “te la sei trovata brava a cucinare?”, ma non fa mistero che questo sia un punto fondamentale nella scelta dell’angelo del focolare?
Se la morte di Giulia Cecchettin, da cui faticosamente siamo ripartite/i, ha scatenato rabbia e indignazione e ha apparentemente squarciato un velo che comunque era già abbastanza a brandelli, questo lungo anno passato a piangere altre vittime ci ha visto covare tanta rabbia – ancora, ma anche, purtroppo una sorta di rassegnazione, dovuta non di certo all’aver perso la motivazione, quanto alla sempre più concreta percezione di essere Davide contro Golia.
Un Golia che ha la faccia di un Ministro dell’Istruzione e del Merito che ha il coraggio di affermare, davanti al padre di Giulia Cecchettin, peraltro, che il patriarcato è una strumentalizzazione ideologica e che, di fatto, non esiste più da 50 anni. Di un governo che stanzia fondi fantoccio per agevolare la maternità, ma che poi nella realtà annienta la possibilità di una madre di conciliare maternità e lavoro e quindi indipendenza. La faccia delle forze dell’ordine, che ancora troppo spesso minimizzano e peggio ignorano le denunce, e delle leggi, che troppo spesso lasciano a piede libero uomini segnalati o recidivi.
Un Golia che ha la faccia di ogni madre, nonna, amica, conoscente, che avalla e anzi porta avanti abitudini frutto dell’educazione patriarcale secolare che portiamo sulle spalle, quelle che sogghignano quando i mariti dicono “no ma tanto a casa comanda lei, io non so fare niente”, che però poi non hanno un bancomat personale perché “tanto i soldi per la spesa me li lascia lui”.
Quel retaggio lì, in cui noi facciamo bella mostra delle nostre abilità domestiche e loro dispongono: dei soldi, del tempo, di noi. In cui ci concedono di lavorare, ma sbuffano se desideriamo emergere. In cui magari ci regalano fiori e gioielli, ma ci misurano i vestiti nell’armadio.
Quel retaggio lì per cui oggi, nel 2024, piangiamo una ragazzina di 13 anni buttata giù dal balcone dal fidanzatino di 15.
Il motto di quest’anno delle manifestazioni nazionali in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza Contro le Donne è “disarmiamo il patriarcato”. Non è disarmiamo “gli uomini”. E non lo è perché la cultura patriarcale permea uomini e donne in uguale misura, a dispetto del pensiero diffuso per cui sia un problema esclusivamente maschile. Il femminismo, che – ripetiamolo ancora una volta – persegue la parità tra uomini e donne e non la prevaricazione di una a discapito dell’altro – e l’educazione sentimentale e sessuale, sono gli unici strumenti che abbiamo, tutti e tutte, per cercare di sradicare questo cancro culturale che no, non ci ammazzerà tutte, ma ci rende tutti più deboli e profondamente infelici.
Imparare a riconoscere le emozioni, positive e negative, a parlarne e a gestirle con razionalità, e imparare a rispettare i confini dei corpi, è un lavoro quotidiano che ognuno di noi deve fare con sé stesso e nel proprio piccolo o grande cerchio famigliare e amicale. È un esercizio costante di empatia ma anche di fermezza: col partner, con la mamma, con la vicina di casa e anche con la nostra classe politica da cui dobbiamo pretendere, con fermezza appunto, gesti significativi e concreti, perché è l’unica strada possibile verso quel numero oggi troppo lontano che è ZERO.